La Risposta di Dio alle Umane Risorse mai Bastevoli

II Domenica del tempo ordinario – Anno C – 19 gennaio 2025

(Is 62, 1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2, 1-11)

Nell’immagine di copertina Le Nozze di Cana – Giotto di Bondone (particolare)

di don Ambrogio Clavadei

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,

finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria” (Is 62, 1-2).

Queste parole di Isaia sono la descrizione impressionante di ciò che vibrava nel cuore della Madonna alle nozze di Cana: che vedano “la tua gloria”. Tutta la vita della Madonna, dal primo istante del suo sì, è stata dominata da questa gloria che l’angelo di Dio le aveva annunciato come novità inaudita per il suo vivere: “Ave Maria, gratia plena” (Lc 1, 38).

Da quell’istante la vita della Madonna è diventata una sola cosa con questa gloria di Dio che veniva a redimere il mondo, e da quell’istante la preoccupazione affinché quella gloria si manifestasse come gusto di vita nuova per gli uomini è diventata ciò che definiva la sua coscienza e la sua missione.

Tanto cresceva nel suo grembo materno quel piccolo seme di carne nel quale era racchiusa la gloria del mistero infinito di Dio, tanto si moltiplicava in lei questo desiderio altrettanto materno per il destino di noi tutti. Tanto diventava Sposa di Dio come Madre di Cristo, tanto desiderava che un giorno questa sua maternità sponsale potesse generare per altri uomini la possibilità di essere congiunti intimamente e sponsalmente a Dio.

Quel giorno venne, e venne come un bel giorno perché non progettato dall’uomo, e nemmeno come progetto sia pure buono del cuore della Madonna, e nemmeno come progetto di Cristo stesso, ma venne dal Padre come mistero di stupore e di grazia: venne proprio come un bel giorno inaspettato, perché solo ciò che è avvenimento inaspettato di Dio è bello, anche se bisogna supplicare ardentemente perché questa bellezza si manifesti per poi accoglierla come verità delle circostanze quotidiane di cui la vita è piena.

L’uomo è bisogno totale di significato, e il giorno della gloria di Cristo sorse per la prima volta colmando un bisogno particolare che di questa totalità è segno: “Non hanno vino”. È una constatazione di assoluto che va oltre il fatto che il vino era finito, e che dice che il mio “vino”, quello prodotto da me con qualsiasi mezzo come possibilità di gusto e letizia della vita, non è sufficiente, e se mi affido solo a questa intrapresa la tristezza e la delusione finiranno sempre per prevalere; la festosità iniziale cederà sempre il passo ad una sconsolata malinconia:

“Ahi! per la via / odo non lunge il solitario canto / dell’artigian, che riede a tarda notte, / dopo i sollazzi, al suo povero ostello; / e fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito / il dí festivo, ed al festivo il giorno / volgar succede, e se ne porta il tempo / ogni umano accidente” (G. Leopardi, La sera del dí di festa).

“E fieramente mi si stringe il core”. È la definizione del riscontro cui giunge inevitabilmente ogni singolo uomo che partecipa al transitorio banchetto della vita, ma anche la risultante di qualsiasi movimento storico con cui i popoli sorgono e cercano di camminare verso una meta di felicità che si prefiggono, ma che non possono che fallire mestamente o, peggio, pervicacemente e violentemente (pensiamo ai tentativi del transumanesimo attuale).

Non hanno vino”. La nostra umanità, qualunque cosa facciamo, anche nel migliore dei casi alla fine giunge sempre ad esaurire le proprie risorse, anche le più profonde e sublimi. Ci si scopre inadeguati, c’è sempre un qualche limite che lascia aridi e assetati, insoddisfatti. L’uomo è strutturalmente sproporzionato all’infinità di domanda che lo agita e muove.

Per quanta “acqua” si abbia a disposizione per la trasformazione, il “vino” prodotto non basta. Nessun “solve et coagula” materiale, spirituale o addirittura magico o esoterico, riuscirà mai a trovare una soluzione al dilemma che sta inscritto nella nostra stessa limitata creaturalità; infatti i nostri otri sono poco o tanto sempre screpolati e tutto cola via nella rottura finale dei cocci. 

Non hanno vino”. Qualcuno ha osato per primo la domanda di un cambiamento della nostra sorte: la Madonna. Non era una pretesa, era solo una pura attesa. Era una domanda che sperava l’ora, ma non pretendeva stabilirla. Era una domanda insistente ma tutta sospesa alla volontà di risposta di suo figlio.

Anche Cristo attendeva che la gloria che il Padre gli aveva dato colmasse gli otri della nostra vita, ma anche lui non sapeva né il giorno né l’ora, perché obbediente ai cenni di Colui che lo aveva mandato. Era disponibile come sua madre, e più di sua madre. Attendeva il cenno del Padre, per questo disse a sua madre: Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora (Gv 2, 4).

Chiamandola “donna” le chiedeva un distacco obbediente pari al suo verso il Padre, un “fiat” come fu agli inizi verso l’angelo. Solo nel distacco qualcosa può accadere: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2, 5). E infatti qualcosa accadde. L’ora imprevedibile giunse (come poi giungerà in pienezza alla Croce, cfr. Gv 19, 26-27). Fu lo Spirito del Padre, lo Spirito che tutto interpreta, opera e dona secondo il volere di Dio – come ci ha ricordato san Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi – a mostrare al Signore che la domanda totalmente disponibile della Madonna era il cenno, e così il Padre congiunse la disponibilità di Cristo con quella di sua Madre.

Sposò il loro reciproco sì alla sua unica volontà, e ciò che nacque trasformando l’acqua in vino, la nostra limitata umanità nel primo segno della nostra figliolanza divina, fu la nostra felicità:Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui(Gv 2, 11).

Sono Cristo e Maria i veri sposi al cui banchetto noi tutti ora siamo invitati. E vi possiamo partecipare con pace e fiducia perché al loro tavolo non mancherà mai il “vino buono” (Gv 2, 10), Al loro convito c’è sempre disponibile una possibilità di pienezza per noi.

È sedendo a quel tavolo, che si è fatto poi altare, che i discepoli furono iniziati al futuro banchetto eucaristico e che, vedendo la gloria di Cristo, non furono più un gruppetto sparso di persone che si interessavano a Gesù.

Credendo cominciarono a diventare una cosa sola, iniziarono a diventare amici, una Compagnia di uomini, i cui otri ormai sigillati furono predisposti a riversare un gusto di vera umanità per ogni banchetto umano a cui inevitabilmente sarebbe venuto a mancare il vino. E così oggi deve essere anche per noi.

di don Ambrogio Clavadei

Oubboicato in origine da Il Blog di Sabino Paciolla

Ogni link a precedenti articoli di Rinascimento Cristiano è stato aggiunto a posteriori

Related Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *